QUANDO GLI ALTRI VOGLIONO LE TUE COSE

E' molto comune vedere come un bambino non intenda condividere nulla di suo con i compagni. Insegnargli a farlo rientra nei normali compiti dell'educazione. La favola del mare aiuta in questo, aiutando a capire il valore della condivisione.

C’era una volta un piccolo mare con tante onde che giocavano sulla spiaggia. A dire la verità si divertivano da morire: correvano e ridevano lungo la spiaggia. Si inseguivano e si spruzzavano l’un l’altra ed erano molto contente. D’inverno, con il vento e le tempeste le onde si gonfiavano e diventavano più grandi e si divertivano a urlare e correre ancora più veloci su tutta la spiaggia. Ma il periodo più bello dell’anno era l’estate quando al mare andavano tanti bambini che volevano giocare con le onde e saltare nel mare e le onde giocavano con i bambini, gli rubavano i secchielli o i palloni da spiaggia oppure li trasportavano su e giù, sui loro piccoli canotti o sui materassini, facendo finta che fossero sulle montagne russe.
Insomma le onde amavano l’estate. Aspettavano impazienti che i bambini finissero la scuola e arrivassero alla spiaggia con i nonni. Le onde amavano i pattini e i surf e i motoscafi.
La mattina presto arrivavano in spiaggia le mamme con i bimbi più piccoli, quelli che non potevano stare tante ore al sole. Allora le onde si appiattivano per non spaventare quei bimbi. E i bambini erano contenti. Entravano appena nell’acqua: bagnavano i loro piedini morbidi insieme alla loro mamma e poi tornavano sotto l’ombrellone. Ma quando arrivavano i bambini più grandi le onde avevano tanta voglia di giocare con loro e li chiamavano. E i bambini capivano il linguaggio delle onde e chiedevano alla mamma di entrare nell’acqua a giocare con le onde; e non solo – una volta entrati non volevano più uscire perché era così divertente giocare con le onde.

Eppure un brutto giorno quel mare si arrabbiò. Non so dirvi cosa sia successo, ma doveva essere qualcosa di importante. Comunque, era così arrabbiato che decise che nessuno avrebbe più giocato con le sue onde.
“Sono mie e basta.” Si disse. “Non permetterò più a nessuno di giocare con le mie cose!”
Vi immaginate cosa avvenne? La mattina dopo, quando le mamme con i bimbi più piccoli arrivarono alla spiaggia c’erano onde talmente grandi che le mamme erano spaventate e riportarono a casa i loro bimbi. E lo stesso avvenne durante tutta la giornata. Nessuno poteva entrare nell’acqua, né i bambini, né i grandi. Non ci furono barche a vela, né motoscafi quel giorno e anche le navi più grandi avevano paura di uscire dal porto. Questo continuò per molti giorni. I bambini tornarono nelle loro città ma erano molto dispiaciuti perché giocare con le onde era una cosa bellissima. Ci furono mamme che volevano portarli in piscina, ma non era la stessa cosa…

“Ti ricordi quando giocavamo a palla, tra le onde?” chiedeva un bimbo all’altro.
“E quando c’erano i cavalloni e saltavamo tenendoci per mano?”
Tutti erano molto dispiaciuti. Per tutto l’inverno le cose continuarono in quel modo. Il mare era molto mosso e le onde erano talmente grandi che impedivano a chiunque di entrare.
Il sindaco della città aveva un bambino al quale piaceva molto nuotare e tutte le sere gli chiedeva: “come sarà il mare domani? Pensi che ci farà giocare ancora con le sue onde?”
Siccome non sapeva più cosa rispondere, il papà quella sera decise di portarlo da un vecchio e saggio pescatore.
“Che dobbiamo fare?” gli chiese.
Il vecchio era molto saggio e conosceva bene quel mare.
“Il mare è molto arrabbiato,” rispose il pescatore. “Non vuole più che giochiamo con le sue onde. Forse dovremmo fargli capire che siamo amici e dargli qualcosa di nostro, come ringraziamento per quello che lui ci ha sempre dato.”
“Ma cosa possiamo dargli?” chiese il sindaco.
“Io ho solo le mie biglie.” Disse il ragazzino.
“E vuoi dargliele?” volle sapere il pescatore.
“Veramente mi piacciono molto, ma posso dargliele. Credi che me le restituirà?”
“Devi chiederglielo.” Rispose il pescatore.
Così quella sera stessa il sindaco e suo figlio andarono alla spiaggia.
“Mare…” urlava il ragazzino. “Se ti do le mie biglie mi fai giocare con le tue onde?”
Il mare che aveva iniziato a sentirsi molto solo e aveva voglia di parlare con qualcuno si azzittì.
“Chi mi chiama?” si chiese e si sdraiò in silenzio per ascoltare.
Allora il bambino si avvicinò.
“Mare, mi mancano molto le tue onde, giocavamo insieme; ti ricordi? Ci siamo divertiti tanto. Ti ho portato anche le mie biglie, se vuoi giocarci. Ma fammi ricominciare a giocare con le tue onde.”
“Ma io non voglio giocare da solo,” disse il mare. “Mi sto annoiando moltissimo. Torna domani e giocheremo con le onde e con le biglie.
E così fu. Il giorno successivo era una bella giornata di sole e il ragazzino corse alla spiaggia. Le onde lo stavano aspettando e cominciarono subito a giocare con le biglie e con gli spruzzi.
“Domani porta i tuoi amici,” gli disse il mare prima di andarsene, “più siamo e più ci divertiamo. Ho capito che stare solo con tutte le mie onde non mi serve, ma avere tanti amici con cui dividere le cose è il modo migliore di sentirsi ricchi.”

PER BAMBINI CHE PIANGONO SEMPRE (E VOLENTIERI)

C'è un piacere nel piangere a cui alcuni bambini si abbandonano. In parte è legato al loro carattere, al loro modo di reagire agli eveni. Aiutarli a rinunciare a questo piacere, significa aiutarli a diventare più capaci a relazionarsi con gli altri e meno concentrati sugli aspetti malinconici della vita 

C’era una volta – tanti ma tanti anni fa’ – un cucciolo di squalo che … mordeva tutti? No.
Che mangiava in continuazione? Neanche.
Che voleva sbranare i suoi amichetti? Neppure.
C’era una volta un cucciolo di squalo che piangeva sempre.
Piangeva quando doveva alzarsi da letto, perché avrebbe voluto continuare a dormire; piangeva mentre faceva colazione, perché non gli piaceva il latte di mucca di mare; piangeva per tutta la strada andando a scuola. Piangeva quando era triste e quando era allegro: quando gli succedevano cose brutte e cose belle.
Gli amici e i fratelli lo guardavano stupiti: “Ma perché piangi sempre?” Gli chiedevano.
“Bu..hu… bu..hu.. Non lo so,” singhiozzava lui e loro lo prendevano in giro e lo chiamavano Lagnoso.
Lagnoso chiese consiglio a tutti: al vecchio Tonno saggio, alla Signora Medusa, perfino al Riccio di Mare che di lacrime se ne intende. Ma nessuno di loro sapeva cosa consigliargli.
Così un giorno cucciolo di squalo decise di andare dalla fata delle Onde perché non voleva più piangere.
“C’è una magia che posso farti,” gli disse la fata. Prese un’alga, gliela passò sugli occhi e gli disse: “Piangi.”
Il cucciolo di squalo non sapeva che fare.
“Piangi,” ripeté la fata, ma al piccolo Squalo non veniva da piangere.
“Adesso piangi,” urlò la fata, sempre sorridendo, e il piccolo squalo scoppiò in una risata. “Non ci riesco!”
“Bene,” disse la fata. “La magia è fatta.”
Piccolo squalo però diventò serio di nuovo.
“E se quando torno a casa, mi viene ancora da piangere?”
“Faremo una magia: io ti sistemo un piccolo rubinetto magico sul collo e se ti verrà ancora da piangere, la mamma cercherà il rubinetto per chiuderlo e le lacrime cesseranno: magari ti farà un po’ di solletico, ma tu dovrai resistere.”

“Ci sto,” disse il piccolo squalo e corse a raccontare tutto alla sua mamma


PER BAMBINI CHE ODIANO RIPETERE LA LEZIONE A VOCE ALTA

Ripetere la lezione a voce alta è uno sforzo per qualsiasi bambino. Tuttavia rappresenta la capacità di imparare un metodo per apprendere, ma anche per esprimersi. Il bambino non vuole? Forse con la favola del piccolo Kevin, riusciremo a convincerlo

C’era una volta un piccolo cavaliere coraggioso di nome Kevin, che aveva solo 9 anni, ma pochissima pazienza e nessuna voglia di aspettare di diventare grande per vivere tante avventure meravigliose. Così una mattina in cui era più impaziente del solito, salutò la mamma e il papà e col suo zaino sullo spalle, partì in cerca di fortuna. Cammina, cammina arrivò ad un lago, sulle cui rive c’era un bellissimo castello costruito in pietra e ferro battuto. Il piccolo cavaliere bussò al portone e quando il ponte levatoio si aprì per farlo entrare, lui si presentò e chiese di essere presentato al cospetto del re.
Fu ammesso a corte e il re lo osservava con curiosità: “Non sei troppo piccolo per fare il cavaliere?” Volle sapere il re.
“Niente affatto,” rispose Kevin. “Sono pronto a diventare cavaliere.”
“Molto bene,” disse il re. “Allora dovrai superare tre prove” e gli diede in mano un grosso libro, con le pagine rifinite in oro zecchino. “La prima prova consiste nel leggere tutto questo libro: è la storia del mio regno.”
“E’ una prova facile,” pensò Kevin, ma il re lo sorprese.
“Solo che… dovrai leggerlo a voce alta.”
Il piccolo cavaliere lo guardò storto, ma siccome il re non fece una piega, il bambino si sedette per terra e iniziò a leggere. Era la storia del castello di Rocca Dura ed era lunga e complicata, ma anche interessante e man mano che la leggeva il bambino si lasciò conquistare. Dopo 3 giorni e 3 notti, quando ormai era stanco morto, il bambino arrivò alla fine.
“Molto bravo,” gli disse il re. “Adesso però andiamocene a dormire. Domani tornerai da me e ti sottoporrò la seconda prova.
Il giorno successivo, Kevin tornò dal re. Vicino a lui era seduta una vecchia. “Questa donna,” gli spiegò il re, “ha visto nascere il Castello di Rocca Dura. Oggi ti farà delle domande e tu dovrai rispondere esattamente, sulla base di quello che hai letto ieri. Se sbaglierai, non supererai la prova e dovrai tornartene a casa.”
Il piccolo cavaliere coraggioso però non si fece intimidire e ascoltò con attenzione tutte le domande che la vecchia gli rivolgeva. E per ogni domanda che riceveva, trovava la risposta giusta e la dava senza fermarsi e senza dubitare. La sera di quel giorno, il re gli parlò. “Bravo cavaliere, hai risposto esattamente a tutte le domande. Adesso vai a riposare, domani sosterrai la prova più difficile di tutte: dovrai raccontare con le tue parole, la storia del castello di Rocca Dura.”
Al sentire quelle parole, al piccolo cavaliere venne da piangere. Lui ODIAVA ripetere un storia: se ne andò a letto triste e sconsolato. “Non ce la farò mai,” pensava. “Mi rimanderanno a casa, perché non supererò la prova.”
Il giorno dopo Kevin si alzò di malavoglia: non avrebbe voluto presentarsi al re, ma restarsene chiuso per sempre nella sua camera, quando all’improvviso vide una luce.
“Chi sei?” volle sapere il cavaliere.
“Sono la fata Parolaia,” disse lei.
“Ah, meno male,” pensò il bambino. “Presto, fammi un incantesimo, in modo che io possa raccontare tutta la storia del castello.”
“Non esistono questi incantesimi,” Gli disse la fata, “Ma posso ugualmente aiutarti: apri la mano.” E gli appoggiò un ragnetto nel palmo.
“Che schifo,” protestò il piccolo cavaliere, ma la fata sorrise.
“Il filo che questo ragno tesse, è come le parole che devono uscire dalla tua bocca.”
Un attimo dopo Kevin era al cospetto del re.
“Bravo cavaliere,” lo accolse il sovrano. “Temevo che avessi paura. Adesso andiamo, raccontami la storia di Rocca Dura.” E si sedette sul trono, pronta ad ascoltarlo.
Il bambino guardò il ragno, che si era accomodato sul polso della sua camicia, e gli faceva cenno e mentre al bambino vennero in mente le prime parole, il ragno fece uscire il suo filo e si calò giù, fino a terra; e man mano che il bambino parlava il ragno scendeva e saliva, appeso a quel filo; e in quel movimento ricamava una bellissima tela. E il bambino più lo osservava, più le parole gli uscivano di bocca e dopo una frase, gli veniva in mente la successiva, e avanti così.
Quando fu sera, il bambino finì di raccontare la storia, il re sorrise di piacere e il piccolo ragno aveva costruito una tela meravigliosa, davanti alla finestra.
“Bravo cavaliere,” gli disse il re. “Hai superato tutte le prove.”
“Grazie maestà, e grazie piccolo ragno.”
“E adesso che sei un vero cavaliere, che farai?”
“Tornerò a scuola,” disse Kevin. “Ho finalmente imparato la magia di ripetere a voce alta e non voglio più scappare.”

OGNUNO NEL SUO LETTO

Dormirebbero nel lettone per sempre, ma il lavoro di genitori consiste anche in questo: renderli autonomi e indipendenti portandoli (gradualmente) a lasciare il lettone, per dormire nella loro stanza e nel loro letto. Come la cangurina della nostra favola

Oggi vi racconto la strana favola di una cangurina che si chiamava Pelù.  Appena nata la sua mamma l’ha stretta tra le zampe, l’ha riempita di baci e poi l’ha messa nel suo marsupio, nella pancia. Pelù adora starsene lì seduta al calduccio, sbircia fuori e le case, gli alberi e gli altri canguri; quando è stanca chiude gli occhi e si addormenta nel suo bel marsupio caldo, attaccata alla sua mamma.
Passano le settimana e i mesi e Pelù mangia e cresce e pian piano quel marsupio le va sempre più stretto. “Devi uscire,” dice la mamma. “Stai diventando troppo grande.”
Pelù è dispiaciuta perché le piace stare al calduccio, ma quando esce dal marsupio e comincia a saltare a fianco della sua mamma, si accorge che le piace un mondo. Salta sui prati, corre per le strade, fa le capriole e impara perfino a nuotare nel fiume.
“È bellissimo stare fuori dal marsupio,” dice alla sua mamma. “Voglio uscire tutti i giorni, ma di notte.. di notte voglio restare nel marsupio a dormire.”
La mamma sorride. Anche a lei piace tenersi la sua cucciola vicina, ma sa che adesso Pelù sta diventando grande e ha bisogno di un lettino tutto suo, in una cameretta tutta per sé.
“Ho avuto un’idea,” dice la mamma. “Adesso ci mettiamo tutti insieme e costruiamo una cameretta tutta per te.”
Così mamma, papà e Pelù disegnano la nuova cameretta, poi costruiscono le pareti, le dipingono e dentro ci mettono giocattoli, il lettino e perfino un bellissimo tappeto.
“È pronta adesso la mia cameretta?” chiede Pelù.
“Ancora no,” dice papà. “Dobbiamo aggiungere uno scaffale, 3 pupazzi e delle bellissime tende colorate.
Pelù aspetta paziente. Poi finalmente un giorno la mamma la chiama: “Pelù, una sorpresa per te: la tua cameretta è pronta.”
È davvero bellissima. “Voglio provare a dormire nel mio lettino,” dice Pelù. La mamma la mette in pigiama, poi lei e papà le danno il bacio della buona notte e lei con un salto supera le sbarre.
“Buon riposo, Pelù. È comodo il tuo lettino nuovo?” Ma lei non risponde, si è già addormentata.